Referendum: e se il vero vincitore fosse Renzi?
Si respira un’euforia trasversale nel fronte del No, dopo la schiacciante vittoria riportata nel referendum del 4 dicembre.
L'esito della consultazione non chiude comunque del tutto le porte al premier, che paradossalmente esce rafforzato da questa sonora batosta. Negli ultimi mesi Renzi aveva radicalizzato il confronto, polarizzando il voto attorno alla sua figura: così adesso si erge in solitaria come ultima speranza per quegli elettori che avevano "voglia di cambiare l'Italia" avviando una stagione di riforme. E allora prendiamo con le pinze questo risultato elettorale, perché il dinamico fiorentino potrebbe farlo fruttare trasformandolo in un patrimonio del 40% di consensi. Facendo un giro sulla rete si nota infatti come molti cittadini stiano vivendo il referendum come il drammatico tramonto del sogno di un Paese più veloce e al passo coi tempi.
L'uragano di voti contrari alle riforme renziane va quindi interpretato con la massima accortezza. Un conto è gioire per aver salvaguardato i diritti fondamentali della Carta costituzionale (primo fra tutti il diritto al voto), un altro è pensare che tale vittoria abbia rottamato il renzismo. Il fronte del No infatti è totalmente disomogeneo nella sua composizione, quindi non alternativo al premier dimissionario. Renzi lo aveva definito "accozzaglia": è stato certamente un errore dal punto di vista elettorale, ma un fondo di verità in quella parola si trova. Le anime del No difficilmente riusciranno a dialogare fra loro fino a poter costruire una coalizione che sia credibile e autorevole. Oggi l'Italia vede ancora un panorama almeno tripolare e fatto di partiti che da soli sono in minoranza.
Diamo comunque atto al premier di aver rassegnato spontaneamente le dimissioni: sono in pochi ad averlo fatto in passato. C'era stato il primo Berlusconi (ma il contesto era ben diverso, visto che il Cavaliere era stato raggiunto da un avviso di garanzia pesante come un macigno), poi Massimo D'Alema dopo una tremenda tornata di elezioni amministrative, e infine Enrico Letta abbattuto dal fuoco amico e "sereno" di Renzi. La mossa del Presidente del Consiglio potrebbe essere come quell'astuzia dei pugili di lungo corso, i quali seppur suonati riescono a uscire dall'angolo ancora in piedi, abbracciando l'avversario.
Le dimissioni lasciano infatti quantomeno perplessi, perché fino a prova contraria il governo aveva i numeri per continuare a lavorare: a testimoniarlo c'è il lungo elenco della spesa di provvedimenti assunti durante il suo mandato, che lo stesso Renzi ha ricordato durante il suo commiato. Peraltro, questo elenco dimostra — se mai ce ne fosse bisogno — che il bicameralismo paritario non apporta tutte queste grandi difficoltà a promulgare leggi, difficoltà che i sostenitori del Sì sbandieravano con slogan apocalittici. Inoltre, pare da irresponsabili abbandonare il governo di un Paese sapendo di aver lasciato in eredità una legge elettorale con evidenti tratti di incostituzionalità e una legge di stabilità (fondata principalmente sul debito per tentare di comprare il consenso degli elettori) che quasi certamente verrà impugnata dall'Unione Europea.
di Marco Fontana - Pubblicato da Sputnik Italia