Marco Fontana
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La voce delle Circoscrizioni
Circoscrizioni di Torino
22 maggio 2012

Il rapporto annuale 2012 dell'Istat sull'economia italiana è un bollettino di guerra

Pubblicato il Rapporto annuale 2012 dell'Istat. Le notizie come nelle previsioni non sono confortanti.

Pil a singhiozzo

Il Pil italiano in volume ha segnato nel 2011 una crescita dello 0,4%. L'attività economica non ha ancora recuperato il livello precedente alla crisi del 2008-2009". "Il sistema delle imprese italiane, che non aveva ancora recuperato le perdite subite con la crisi del 2008-2009, ha sperimentato nel 2011 una nuova fase di difficoltà derivante dal sovrapporsi di una contrazione della domanda interna e di un
indebolimento di quella estera", spiega l'Istat.

"Il recupero ciclico dell'attività produttiva dai minimi del 2009 è proseguito fino alla prima metà del 2011, per poi segnare - evidenzia - una netta inversione di tendenza nella seconda parte dell'anno".

Negli ultimi 10 anni la crescita contenuta dell'Italia è determinata da un'insoddisfacente dinamica della produttività". l'Istat, nel rapporto annuale, spiega che "rispetto alla media dei Paesi Ue-27, l'Italia ha registrato un differenziale di crescita reale annuo della produttività pari a -1,2 punti percentuali".

Nel periodo 2000-2011 con una crescita media annua pari allo 0,4%, l'Italia risulta ultima tra i 27 stati membri dell'Unione europea, con un consistente distacco rispetto sia ai Paesi dell'eurozona, sia dell'Unione nel suo complesso (circa un punto percentuale in meno all'anno).
Lo rileva l'Istat nel suo ultimo Rapporto annuale.  Guardando indietro, la performance dell'Italia è stata migliore nel periodo 1992-2000 (+1,8% in media annua), ma il Paese si è comunque collocato al penultimo posto della graduatoria dei maggiori Paesi europei, davanti alla
Germania (+1,7%).

Istruzione, risultati diversi a seconda della classe sociale

La classe sociale dei genitori condiziona fortemente il destino dei figli". L'ascensore sociale appare bloccato anche nei percorsi formativi: tra i nati negli anni '80 si è iscritto all'università il 61,9% dei figli delle classi agiate e solo il 20,3% di figli di operai.

La percentuale di chi raggiunge la laurea è molto diversa tra le classi: "si va dal 43% dei figli della borghesia nella generazione dei nati nel periodo 1970-1979 al solo 10% di quelli della classe operaia". La famiglia di origine pesa anche nel raggiungimento del diploma. Infatti, mentre le differenze nei tassi di iscrizione sono ormai minime, il tasso di abbandono è molto più alto per gli studenti delle classi meno agiate: il 30% dei figli di operai nati negli anni '80, contro il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori e professionisti. 

Le differenze sono più esasperate nel confronto tra il Sud e il resto del Paese. Nel Mezzogiorno le difficoltà a salire i gradini della scala sociale sono maggiori. È più difficile ottenere una posizione lavorativa stabile negli anni successivi all'inizio di un lavoro atipico. A distanza di dieci anni, solo il 47,6% ha trovato un'occupazione stabile, al Nord, questa percentuale è superiore al 70%.

Nel 2011 in Italia c'erano 2,1milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiavano nè lavoravano. La quota italiana di Neet (not in education, employment or training) è del 22,1% sulla fascia di età considerata a fronte di una media europea del 15,3%. La quota è
sensibilmente più alta se si guarda solo al Sud (31,9% con punte superiori al 35% in Sicilia e Campania). In Germania i Neet sono appena il 10,7%.

Comunque ci sono anche dati positivi: in 20 anni, dal 1991 a oggi, il tasso di scolarità per le età 14-18 anni è cresciuto di 24 punti percentuali. Nell'anno scolastico 2010-2011 alla scuola secondaria di secondo grado erano iscritti 92 ragazzi su 100, contro i 68 su 100 del 1990-91. Anche la percentuale dei 19enni che si diplomano è aumentata, passando dal 50 al 74% del totale.

A trainare la crescita sono state soprattutto le donne, la cui partecipazione scolastica è superiore a quella degli uomini (93 e 91,5%). Le ragazze concludono più frequentemente dei ragazzi il percorso formativo: ottiene il diploma il 78% delle ragazze contro il 69% dei ragazzi.

Le scuole tecnico-professionali sono ancora oggi quelle che attirano il maggior numero di studenti, anche se con una minore intensità rispetto a 20 anni fa: l'incidenza dei corsi tecnico professionali è diminuita (57,6% contro 68%) a vantaggio degli indirizzi liceali (42,4% contro 32%). In calo, ma ancora elevati, gli abbandoni scolastici (18,2%), soprattutto nel Mezzogiorno (21,3% contro il 16% del Centro-Nord).

Lavoro

Nel 2011 sono diminuiti gli occupati appartenenti alle classi d'età più giovani: 93 mila in meno tra i 15 e i 29 anni e 66 mila in meno tra i 30 e i 49 anni. Lo rileva l'Istat nel Rapporto annuale 2012, aggiungendo che, invece, sono cresciuti gli occupati con almeno 50 anni (+254mila persone), un tendenza che, spiega l'Istituto di statistica, "può essere ricondotta alla modifica dei requisiti, sempre più stringenti, per accedere alla pensione".

Aumenta di conseguenza il numero dei giovani che restano in casa: il 41,9% dei giovani tra 25 e 34 anni vive ancora in famiglia contro il 33,2% del  1993-1994. Il 45% dichiara di restare in famiglia perchè non ha un lavoro e non può mantenersi autonomamente. Il prolungamento della permanenza in casa con i genitori si estende anche a giovani adulti:il 7% fra 35-44 anni vive ancora in famiglia, dato raddoppiato. Si dimezza in 20 anni la quota di giovani che esce di casa per sposarsi.

Per grado di flessibilità nei rapporti di lavoro, tra il 1995 ed il 2008, quindi già prima della riforma al vaglio del Parlamento, l'Italia è "profondamente cambiata", ed è "scesa di tredici posizioni" nella classifica per rigidità basata sull'indice Ocse, dietro a Paesi come Norvegia, Belgio, Germania, Austria. La maggiore flessibilità è stata introdotta  nel lavoro a termine mentre "nessun cambiamento sostanziale sembra aver interessato la regolamentazione dei licenziamenti collettivi ed il grado di protezione dei lavoratori permanenti contro il rischio di licenziamenti individuali".

Famiglia in frantumi

È in forte diminuzione il numero delle coppie sposate che hanno figli: appena il 33,7% nel 2010-2011 contro il 45,2% del 1993-94. La famiglia tradizionale "soffre" anche nel Mezzogiorno dove rappresenta poco più del 40% contro il 52,8% di quasi vent'anni prima.

Raddoppiano invece le nuove forme familiari (single non vedovi, monogenitori non vedovi, libere unioni e famiglie ricostituite coniugate) che
hanno raggiunto gli oltre 7 milioni di nuclei su 24 totali, il 20%. Lo rivela il rapporto annuale 2012 dell'Istat. I matrimoni sono in continua diminuzione (poco più di 217 mila nel 2010, nel 1992 erano circa 100 mila in più). Le libere unioni sono quadruplicate in meno di 20 anni, nel 2010-2011 sono 972 mila. Le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili, in tutto 578 mila, hanno fatto registrare gli incrementi più
sostenuti: 8,6 volte in più di quelle del 1993-1994.

In aumento anche le separazioni: ogni 10 matrimoni quasi tre finiscono in separazione, una proporzione raddoppiata in 15 anni.

Povertà

Complessivamente, dall'inizio della recente crisi economica, cioè dal 2008, le famiglie hanno visto crescere del 2,1% il reddito disponibile in valori correnti, cui è corrisposta una riduzione del potere d'acquisto (cioè, in termini reali) di circa il 5%. Se si considera la dinamica
crescente della popolazione residente, nel 2011, il potere d'acquisto delle famiglie per abitante è del 4% inferiore a quello del 1992.

Nel Mezzogiorno ad una più ampia diffusione del fenomeno si accompagna una maggiore gravità del disagio: l'intensità della povertà raggiunge, infatti, il 21,5%, contro il 18,4% osservato nel Nord. Particolarmente grave risulta la condizione della famiglie residenti in Basilicata, Sicilia e Calabria.

È poi peggiorata la condizione delle famiglie più numerose: in condizione di povertà relativa vive il 29,9% delle famiglie con cinque o più componenti (+7% rispetto al 1997). Nelle famiglie con almeno un minore l'incidenza della povertà è del 15,9% e complessivamente vivono in condizioni di povertà relativa 1 milione e 876 mila minori.  Diminuisce invece, dal 1997 al 2010, la povertà nelle famiglie con a capo un anziano: l'incidenza di povertà scende dal 16-17% al 12,2%. I separati e i divorziati, osserva l'istituto di statistica, sono più esposti al rischio povertà (20,1%), rispetto ai coniugati (15,6%). Le ex mogli sono più esposte (24%) rispetto agli ex mariti (15,3%).

Intanto sono più di 4 milioni le persone incapienti che non riescono ad usufruire per intero delle detrazioni spettanti perchè - o con un reddito troppo basso o con troppi familiari a carico - la loro somma è maggiore dell'imposta lorda dovuta e quindi le detrazioni in eccesso vengono perse. Tali contribuenti perdono così 594 euro pro capite, per un totale di circa 2,6 miliardi di euro.

Risparmio ai minimi storici

Nel 2011, per compensare la diminuita capacità d'acquisto, le famiglie consumatrici hanno ridotto la propensione al risparmio (definita dal rapporto tra il risparmio lordo delle famiglie e il loro reddito disponibile), portandola all'8,8%, il valore più basso dal 1990. Lo rileva l'Istat, nel
rapporto annuale 2012. Tuttavia, spiega l'Istat, nella parte finale dell'anno la propensione al risparmio invece ha registrato una leggera risalita (al 9,1%), favorendo un'accelerazione della caduta dei consumi. Ma d'altra parte nel periodo 1992-2011 si è registrato un progressivo aumento del carico fiscale corrente sulle famiglie, passato dal 13,2% degli anni 1992-1996 al 14,1% del periodo 2011-2007, per raggiungere il 15,1% nel 2011.

Investimenti a corto di credito

Nel 2011 gli investimenti fissi lordi sono diminuiti dell'1,9%, sottraendo alla crescita 0,4 punti percentuali. Una modesta attività d'investimento che è stata accompagnata da crescenti difficoltà di accesso al credito bancario. A riguardo, spiega l'Istituto di statistica, "l'indagine sulla fiducia delle imprese manifatturiere segnala come, nella seconda metà del 2011, la percezione delle imprese sulle condizioni di credito sia peggiorata bruscamente: la percentuale di imprese che avverte un inasprimento delle condizioni di finanziamento, in crescita pressochè continua dalla metà del 2010, sul finire del 2011 si è attestata in tutti i settori su livelli compresi tra il 35% e il 45%, valori molto elevati e paragonabili a quelli osservati nelle fasi più severe della crisi dell'autunno 2008".

Inoltre, si legge sempre nel Rapporto, "al deterioramento delle condizioni creditizie si è associato, con qualche ritardo, un aumento della quota di imprese che si ritiene effettivamente razionata, soprattutto di quelle che si sono viste rifiutare dalla banca il finanziamento richiesto".

La competitività crolla

L'Export italiano cresce (+11,4% nel 2011), ma l'Italia vede ridursi la quota sul commercio mondiale (dal 3,8% del 2000 al 3,1% del 2011) mostrando così "segnali di perdita di competitività sui mercati internazionali". Negli ultimi 10 anni "l'Italia ha rafforzato i processi di internazionalizzazione ma esistono ancora spazi di miglioramentò.  Nel 2010 gli Investimenti diretti esteri in Italia sono stati pari al 16% del Pil, quelli italiani all'estero pari al 23,5%.

Nel confronto europeo, sottolinea l'Istat, "L'Italia si caratterizza per un livello di apertura internazionale agli scambi di merce relativamente  ridotto e per un limitato livello di internazionalizzazione attiva".

di Marco Fontana (Fonte Ansa)

 

 

 

 

 

 

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