Marco Fontana
Marco Fontana
La voce delle Circoscrizioni
Circoscrizioni di Torino
21 dicembre 2018

Intervista ad Andrea Fluttero: "L’Italia punti sull’economia circolare per creare lavoro e migliorare l’ambiente"

La recessione bussa alle porte dell'Italia. Il recepimento della direttiva UE sull’economia circolare, a cui tutti gli Stati membri devono adeguarsi entro il 5 luglio 2020, può costituire l’opportunità di nuove regole per lo sviluppo del Paese.

Per dare un'idea di quanto Pil possa creare questo modello, si stima che entro il 2030 quasi 4,5 trilioni di dollari verranno da attività riconducibili all'economia circolare. L'Italia si stia attrezzando per farsi trovare pronta? Lo abbiamo chiesto a un esperto del settore, Andrea Fluttero, presidente FISE UNICIRCULAR (Le fabbriche dell'economia circolare).

—  L'economia circolare e la green economy possono essere una ricetta per uscire dalla crisi?

— Si consideri il primo rapporto sull'economia circolare presentato quest'anno al World Economic Forum di Davos, secondo il quale dal 1900 al 2015 a fronte di un aumento della popolazione mondiale di 4,5 volte, lo sfruttamento di risorse naturali è aumentato di 12 volte. Ben 9,2 miliardi di tonnellate vengono consumate ogni anno, ma di esse viene riciclato solamente il 9,1%. Il passaggio da un'economia lineare a una circolare è, quindi, sia necessario che conveniente. Necessario perché contrasta il consumo sempre più rapido di materie prime. Conveniente perché una buona gestione del post-consumo (raccolta e preparazione al riuso e al riciclo) crea lavoro, fatturato, occupazione e disponibilità di materie prime.

— Come si pone l'Italia rispetto all'economia circolare, che in Europa vale 400 miliardi di euro?

— La scelta di puntare sull'economia circolare è europea: l'Italia sarà in posizione di vantaggio qualora sappia far evolvere le buone performance del riciclo nell'attuale modello di economia lineare in un nuovo modello circolare. La carenza di materie prime e la crescente ostilità alla realizzazione di discariche e termovalorizzatori hanno avuto l'effetto di generare le condizioni per un sistema industriale del riciclo che è una vera eccellenza continentale. Il settore della gestione rifiuti esprime 10.500 aziende, con un valore di 23,5 miliardi. Gli ultimi dati parlano di 174,8 milioni di tonnellate di rifiuti all'anno da gestire (29,6 milioni di tonnellate di rifiuti urbani e 145 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, dei quali circa il 40% di inerti da costruzione e demolizione).

— Ci sono buchi legislativi che non permettono il pieno sfruttamento di queste potenzialità?

— Scontiamo una forte disomogeneità sul territorio nazionale nei modelli organizzativi e nelle capacità amministrative. Nei prossimi 20 mesi bisognerà modificare profondamente l'assetto normativo per poter recepire il pacchetto di direttive europee. Se Parlamento e Governo sapranno ascoltare le categorie del settore, si potrà mettere a frutto l'esperienza di questi anni. Tuttavia è preoccupante l'incapacità della politica di affrontare l'attuale blocco delle autorizzazioni per la cessazione della qualifica di rifiuto. L'impasse deriva dalla sentenza n.1229 del Consiglio di Stato del 28 febbraio 2018 che richiama l'applicazione dell'art.184-ter del D.Lgs.152/2006, secondo cui le Regioni non possono autorizzare la cessazione della qualifica di rifiuto per i materiali che derivano dai trattamenti di riciclo dei rifiuti, perché tale competenza è mantenuta dalla norma citata in capo al Ministero dell'Ambiente, il quale dovrebbe provvedere con propri decreti (fatti salvi i casi regolati a livello europeo, limitati a pochissimi flussi). In pratica, senze nuove leggi gli impianti non potranno iniziare a operare e altri ancora resteranno fermi, con ripercussioni a catena sulla raccolta differenziata e sull'accumulo dei rifiuti, scoraggiando anche gli investimenti.

— I Piani Individuali di Risparmio (PIR) possono costituire uno strumento per finanziare le imprese che fanno economica circolare?

— Certamente serviranno investimenti per rendere concreta la transizione da economia lineare a circolare, ma le diverse forme disponibili, tra cui i PIR, sono più che sufficienti. Il vero problema è l'assenza di volontà e capacità per attuare un reale cambiamento di modello economico, non solamente un cambio di nome.

Come convincerebbe un consumatore a scegliere prodotti realizzati secondo la filosofia dell'economia circolare?

— Il contributo determinante che i consumatori possono dare all'economia circolare è la cura e l'attenzione con cui gestire il conferimento dei materiali e i prodotti a fine vita, tenendo conto che dovranno essere nelle migliori condizioni per essere riparati, riusati o riciclati. Così, i prodotti realizzati in un modello circolare non saranno meno performanti o troppo cari rispetto a quelli abituali.

— L'Italia non è un Paese produttore di materie prime. L'economia circolare potrebbe permetterci di rivivere un boom economico come Paese trasformatore?

— Un boom economico vero e proprio no, ma lo sviluppo di un fiorente settore (che potremmo chiamare "demanifatturiero") sì. La base poggia su innovazione tecnologica e flessibilità imprenditoriale, che adatti gli impianti di riciclo alla continua evoluzione dei prodotti e dei materiali immessi sul mercato.

— Il sistema scolastico è pronto a formare le figure professionali necessarie?

— Tutte le scuole medie superiori tecniche e le università politecniche con chimica e biologia daranno un contributo notevole alle capacità industriali di cui stiamo parlando. È utile curare tutte queste discipline indipendentemente dalla sviluppo dell'economia circolare.

— Come immagina l'Europa del domani, se venissero sfruttate a pieno la potenzialità dell'economia circolare?

— Immagino un continente nel quale vengono fabbricati replica watches o importati prodotti nuovi solamente qualora certi standard di qualità ambientale e di salute umana siano rispettati dai materiali per essi utilizzati, che devono essere progettati in modo da venire riparati, riusati e riciclati con facilità. Sarebbe un'Europa in cui i prodotti che non servono più non sono rifiuti, ma vengono ceduti a strutture ben organizzate di "logistica di ritorno", connesse a imprese che li preparano al riuso. Non dovremmo più importare altre materie prime, anzi addirittura esporteremmo le parti provenienti dal riciclo. Sarebbe infine un continente in cui è stata creata occupazione dall'economia circolare e che ha una qualità dell'ambiente decisamente superiore a quello di oggi.

di Marco Fontana - Pubblicato da Sputnik Italia

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