Marco Fontana
Marco Fontana
La voce delle Circoscrizioni
Circoscrizioni di Torino
23 luglio 2012

Cinque parlamentari contro lo "statista" Monti

Caro direttore, ci siamo astenuti sulla ratifica del fiscal compact e vorremmo spiegare le nostre ragioni. Anzitutto, l'accordo intergovernativo si traduce in un obbligo italiano per la riduzione del debito di circa cinquanta miliardi l'anno per vent'anni: un'enormità. In secondo luogo, ci impegniamo a pareggiare in tempi brevi il bilancio pubblico. Siamo convinti che il pareggio del bilancio sia un principio primario di trasparenza nella gestione della cosa pubblica e che sia anche un caposaldo del pensiero liberale.

Basti pensare a Marco Minghetti che a esso, che considerava essenziale all'interesse dello Stato, sacrificò la sua parte politica. Riuscì ad annunciare il raggiungimento dell'agognato obiettivo il 16 marzo 1876, ma, due giorni dopo, la «rivoluzione parlamentare» fece cadere il suo governo e alle successive elezioni la Destra storica smise di esistere! Si può citare anche Luigi Einaudi che, in piena sintonia con Ezio Vanoni, volle che, all'articolo 81, la nostra Costituzione adottasse il principio. La sinistra non ha mai amato questo criterio di finanza pubblica: soggiogata da Keynes, ha sempre preferito sostenere il deficit spending per promuovere sviluppo e occupazione. Basti pensare al monumentale volume Le leggi di spesa nella Costituzione con cui Valerio Onida ha costruito la sua brillante carriera. Quel volume è dedicato a sostenere che le teorie keynesiane sono più importanti dell'intenzione del legislatore costituente e che il pareggio del bilancio è principio arcaico. Il pareggio del bilancio secondo noi è desiderabile quando la spesa pubblica è inferiore al 10% del reddito nazionale, come ai tempi di Minghetti, o si aggira intorno al 30%, come ai tempi di Einaudi, ma non lo è per nulla quando, come adesso, supera il 50%. Dal momento che la spesa è per lo più costituita da entitlements (spese che non possono essere ridotte a legislazione invariata), pareggiare il bilancio nei tempi previsti dal fiscal compact significa continuare a far inseguire l'aumento delle spese dalla crescita dell'imposizione: una politica che potrebbe solo scatenare una recessione.

Ratificando il fiscal compact, l'Italia delega la sua sovranità in materia di bilancio, che è l'essenza stessa dell'attività di governo, non agli Stati Uniti d'Europa, non a un governo europeo democraticamente eletto ma a un insieme di regole dettate da un accordo interstatale, il che a noi sembra inaccettabile.

E ancora: è davvero necessario rinunziare alla autonomia nella gestione del bilancio da parte di Paesi che usano un'unica moneta? A noi non sembra: i cinquanta Stati degli Usa adoperano tutti il dollaro, ma ognuno di essi sceglie in piena autonomia come gestire il suo bilancio, e ne sopporta le conseguenze. Né il governo federale né la Fed hanno mai pensato fosse loro dovere intervenire «in aiuto» di Stati o di contee che non riuscivano a onorare i propri impegni. Il fiscal compact, quindi, non è per niente essenziale all'esistenza dell'euro. Il governatore della Bce, Draghi, ha detto che l'euro è irrevocabile. Anche noi lo crediamo ma non consideriamo questa una qualità della moneta europea. E' stato azzardato costruire l'unione monetaria senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità che potesse non funzionare. I provvedimenti assunti con accordi intergovernativi, come appunto il fiscal compact, sono dannosi tentativi di porre rimedio alle lacune dell'intero sistema. Sarebbe molto meglio per l'Europa e per gli Stati membri ripartire da Maastricht e rimediare alle manchevolezze che si sono evidenziate negli ultimi anni.

 

di Antonio Martino, Deborah Bergamini, Enrico La Loggia, Gennaro Malgieri, Giuseppe Moles

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