Marco Fontana
Marco Fontana
La voce delle Circoscrizioni
Circoscrizioni di Torino
19 marzo 2013

Di giustizia italiana si può anche morire

In Italia la giustizia torna a far parlare di sé, infuocando un dibattito politico che non ha certo bisogno di ulteriore benzina sul fuoco. Il leader del centrodestra Silvio Berlusconi è stato raggiunto nel giro di poche ore da un nuovo avviso di garanzia (per una presunta compravendita di senatori risalente al 2008, che un altro magistrato aveva già archiviato per insussistenza del fatto) e dalla visita di un medico fiscale all’Ospedale San Raffaele di Milano, dove era ricoverato, per accertare che esistessero davvero gli estremi del legittimo impedimento per il processo Ruby.

Questa scelta, imposta in modo irrituale dal pm Ilda Bocassini per tre volte in due giorni, ha scatenato sia una protesta silenziosa di tutto il gruppo parlamentare del PdL di fronte al Tribunale di Milano.

Da qualsiasi parte la si guardi, la vicenda è grottesca. Da un lato c’è un leader politico inseguito dalla giustizia da vent’anni, con un drammatico dispendio di risorse economiche e umane: una situazione che sarebbe paradossale in qualunque altro Paese, e se il 30% degli italiani gli ha nuovamente concesso il voto, l’opinione pubblica internazionale dovrebbe porsi qualche domanda. Dall’altro c’è una linea sottile, altrettanto paradossale, che travasa magistrati dai Tribunali al Parlamento, e viceversa. Da un altro lato ancora c’è un gravissimo conflitto tra i Poteri dello Stato, senza che vi sia reciproco rispetto o riconoscimento. E infine c’è il dibattito sulla riforma della giustizia, che langue perché si concentra immancabilmente sulle garanzie per i processi che interessano Berlusconi, invece di occuparsi di quelle storture, anche ideologiche, che quotidianamente l’ammorbano e che penalizzano i comuni cittadini.

Tralasciando il primo punto, su cui la riflessione sarebbe sterile perché si tramuterebbe nel referendum pro o contro un singolo uomo, gli altri tre meritano un approfondimento. Che il Parlamento italiano sia diventato un vaso comunicante della magistratura è un dato di fatto. L’esempio più recente è quello di Antonio Ingroia, magistrato cresciuto nel pool di Falcone e Borsellino, che ha come voce principale del curriculum l’aver indagato Berlusconi sui suoi rapporti con la mafia - accusa poi archiviata - e che in queste ultime elezioni si è presentato con la propria lista “Rivoluzione Civile”. Non avendo raggiunto il quorum per sedere in Parlamento, Ingroia si è candidamente dichiarato disposto a tornare in magistratura. Ora, quale imparzialità può garantire in futuro questo magistrato? Potrà ancora godere di credibilità qualora indagasse un qualsiasi esponente politico?

Il conflitto tra Poteri è solo l’altra faccia della medaglia. Di fronte ad una magistratura che si auto-giudica (nella storia del Csm, in gran parte nominato da politici, non si registrano condanne dei propri membri neppure di fronte all’evidenza), c’è un Potere politico senza alcun tipo di bilanciamento. Tra il 1993 e il 1994, sulla spinta umorale di Tangentopoli, l’opinione pubblica ha abolito l’immunità parlamentare portando allo squilibrio totale tra Poteri dello Stato. È una situazione dannosa per entrambe le parti, poiché crea un legittimo sospetto su qualsiasi decisione della giustizia quando essa sfiora la casta politica. In questi anni abbiamo assistito al pubblico ludibrio di politici autorevoli minacciati dal tintinnar di manette e poi prosciolti. Uno su tutti: Ottaviano del Turco, già ministro delle Finanze e presidente della Regione Abruzzo, azzoppato da un’indagine sulla gestione della sanità pubblica; è risultato poi completamente pulito, ma gli schizzi di fango sono rimasti la sua immagine pubblica.

Sulla questione più importante, la riforma della giustizia, la classe politica italiana è ancora ostaggio di ideologie e ostruzionismi interni, condannando di fatto i normali cittadini a non vedere mai quelle modifiche assolutamente necessarie. Proprio in questi giorni sono avvenuti due casi che stanno facendo molto discutere. A Torino, il medesimo Tribunale ha permesso a Salvatore, colpito dalla sindrome Niemann-Pick, di essere curato con il metodo Stamina, messo a punto dal dottor Vannoni, e ha vietato alla sorella di sottoporsi alla medesima cura. C’è poi il caso di una donna pugnalata più volte dall’ex convivente, appena uscito dal carcere per buona condotta. Quella donna non avrebbe meritato di essere protetta dalla giustizia? Tali contraddittorie decisioni dovrebbe scuotere nel profondo il mondo politico, essere motivo di imbarazzo per chi ci governa. Perché oggi, nel 2013, di giustizia si può anche morire in Italia, ed è su questo che bisognerebbe discutere.

di Marco Fontana - pubblicato su "La Voce della Russia"

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