Marco Fontana
Marco Fontana
La voce delle Circoscrizioni
Circoscrizioni di Torino
07 settembre 2013

Per fortuna esiste ancora la libertà di stampa

Il presidente di Magistratura democratica, Luigi Marini, se la prende con un mio articolo accusandolo di cultura settecentesca. Caro presidente, si dà il caso che la cultura settecentesca sia quella che ci consente oggi di vivere liberamente nelle democrazie liberali, mentre quella di Magistratura democratica assomiglia molto alla cultura novecentesca dei bolscevichi. Come possano non essere «politicizzati» dei magistrati che fanno «politicità del fare giustizia» poteva venire in mente solo a un apprendista leninista in ritardo con i tempi.

Guardi, presidente, che a connotarvi come partito (rivoluzionario), non sono io, ma siete voi stessi. Marco Ramat, fondatore del movimento, aveva detto al congresso del 1975: «Il nostro compito consiste nella ricerca di una politica della magistratura e per la magistratura che sia capace di inserirsi utilmente nella lotta difensiva e offensiva condotta dal movimento democratico nel suo complesso». La «lotta difensiva e offensiva condotta dal movimento democratico» era, poi, il tentativo del Pci di sostituire, all'ombra della retorica resistenziale, l'autoritarismo fascista col totalitarismo comunista. Se, per voi, «la certezza del diritto, la neutralità dell'interpretazione, il ruolo tecnico del giudice» — che, in democrazia, sono i principi ispiratori della Giustizia — sono disvalori; se un vostro esponente, Elena Paciotti, si chiede — anche di fronte alla legge? — se «vanno considerati uguali un imprenditore e un lavoratore»; se per un altro, Antonio Bevere — persino contro Marx, che associava la nascita del capitalismo a quella delle istituzioni democratico-liberali — «il capitalismo è il vero nemico della democrazia»; se Scarpinato e Ingroia auspicano «la creazione di interventi extra-istituzionali qualora le elezioni vengano vinte da gente non democraticamente affidabile» (leggi: non la sinistra); sono io che vi accuso o siete voi a essere politicizzati? Siete una minoranza dentro la stessa magistratura; volete fare la rivoluzione stipendiati dallo Stato che intendete sovvertire. Un ridicolo paradosso.

La rivoluzione non è un fatto giuridico, legittimato dall'Ordinamento esistente — la pasticciata Costituzione della quale citate, parzialmente, le parti di «socialismo reale» e non quelle di garanzia liberale — ma normativo, cioè, un tentativo di modificare l'Ordinamento esistente; che, da noi, bene o male, è ancora democratico, e sostituirlo con un altro (che dubito lo sarebbe). Siete degli aspiranti rivoluzionari con lo stipendio, la mutua, la pensione garantiti... Parlare da leninisti non è un reato, né è illegittimo esserlo. Ciascuno risponde — solo moralmente e politicamente — di ciò che dice. Parecchio discutibile è, piuttosto, che cerchiate di fare la rivoluzione a colpi di sentenze, interpretando in modo assai soggettivo la stessa Costituzione, e ritenendovi promanazione della sovranità popolare — una sorta di impropria appendice sovra-ordinata del legislativo — perché, e come, più vi fa comodo. Ma — dato che ve la cuocete e ve la mangiate tutta da soli — almeno risparmiateci certe lettere ipocritamente indignate…

 

Ecco cosa aveva scritto il presidente di Magistratura Democratica:

"Inaccettabile definire Md partito politico"

di LUIGI MARINI  (presidente Magistratura democratica)

ROMA - Non è la prima volta che Il Corriere della Sera ospita interventi che travisano la politicità del fare giustizia con la c.d. politicizzazione dei magistrati. Ad Angelo Panebianco poche settimane fa rispose sulle pagine del quotidiano il Vicepresidente del Csm, Michele Vietti, rivendicando, da uomo politico, la ricchezza del dibattito culturale che caratterizza i gruppi associati e l'intera magistratura.

Sabato 31 agosto Piero Ostellino in "Salvate il soldato Montesquieu" (pag.59) scriveva tra le altre cose: "oggi l'ordine giudiziario è, da noi, identificato con la magistratura ... se non, addirittura, con un sindacato (Magistratura democratica) che, peraltro, assomiglia più a un partito politico che a un organo dell'amministrazione della giustizia". E prosegue che "la parte della magistratura di ispirazione neo giacobina, collettivista e dirigista, si sente in dovere non solo di esercitare una funzione di supplenza del legislativo e dell'esecutivo, ma addirittura di intervenire ... con le proprie sentenze sugli equilibri interni della classe politica in favore di quelle forze che interpretano più rigorosamente il dettato costituzionale." Il tutto per dire che quella magistratura a rigore ha ragione, ma che è sbagliata la Costituzione e soprattutto l'art.3, che non è stato attuato "per evidente impraticabilità materiale e formale".

Se non sorprende che una cultura di destra, rimasta al Settecento, dipinga i magistrati progressisti nei termini usati da alcuni mezzi d'informazione dopo la sentenza della Cassazione  del 30 luglio scorso, non possiamo accettare che dalle pagine del Corriere si parli di Md come di una struttura che agisce come un partito politico e che intenzionalmente interviene sugli equilibri interni alla classe politica favorendo un partito piuttosto che l'altro.

La storia di questi 50 anni sta lì a dimostrare che Md ha certamente dialogato in prevalenza con le associazioni e i partiti progressisti, i più attenti alla tutela dei diritti e alla attuazione dei principi costituzionali; ma è sempre stato un dialogo tra diversi, spesso attraversato da conflitti legati a quelle esigenze di mediazione che sono proprie della politica e che i magistrati hanno rifiutato perché estranee al ruolo, all'agire e alla cultura che li connotano.

E, poi, quali sarebbero le sentenze emanate per intervenire sugli equilibri politici? Ostellino non lo dice, ma non è un caso che lo scriva a pochi giorni dal deposito della sentenza della Cassazione nel processo sui diritti televisivi. Va qui detto con chiarezza, ancora una volta, che l'intero processo e la decisione della Corte non hanno niente a che vedere con Md e le sua storia e che si è trattato di un normale processo per evasione fiscale, reso eccezionale solo dalle qualità personali e dalle condotte di uno degli imputati. A pensarci meglio, quella decisione una cosa in comune con Md ce l'ha: l'idea di indipendenza della giurisdizione come momento essenziale per l'attuazione della democrazia.

Gli stereotipi culturali che troppi commentatori continuano a seguire quando parlano dei magistrati e di Md costituiscono terreno fertile per le battaglie di coloro che intendono solo riportare la magistratura "sotto il trono" della politica. Assistere all'intesa soddisfatta di Pannella e Berlusconi al momento della firma del secondo sotto i referendum radicali nel nome di un'idea falsa di libertà e di giustizia mi ricorda la soddisfazione con cui molti uomini di Chiesa hanno fino a ieri accolto finanziamenti e sostegno incuranti della provenienza del denaro e delle qualità dei donatori.

A questa falsa idea di libertà senza uguaglianza noi opponiamo una idea della cosa pubblica che chiede equilibrio fra democrazia e regole e in cui il più forte e il più furbo non sono destinati a una vittoria ineluttabile.

Il nostro compito è tutelare i diritti e risolvere i conflitti secondo le indicazioni che vengono dalla legge e dalla Costituzione. Una Carta che, per dirla con Benigni, è ancora bellissima e per questo non piace a chi vuole difendere privilegi e strumentalizzare il consenso fino a farne un assoluto che si può comprare e rivendere a piacimento.

 

Ma da che cosa nasce la piccata reprimenda del presidente di Magistratura democratica, Luigi Marini? Dai seguenti articoli:

 

Salvate il soldato Montesquieu
di PIERO OSTELLINO

Sulla questione dei rapporti fra i poteri legislativo ed esecutivo, da una parte, e l'ordine giudiziario, dall'altra, bisognerebbe, almeno, evitare di ingannare noi stessi. Invocarne la divisione e la separazione fa ottenere l'applauso di chi finge di conoscere Montesquieu, ma non ha alcun senso. Nella letteratura antiassolutistica settecentesca, e in quella democratico-liberale ottocentesca, il legislativo e l'esecutivo erano i soli poteri dello Stato (massimo quello legislativo). Oggi, l'ordine giudiziario è, da noi, identificato con la magistratura - il corpo burocratico-amministrativo di dipendenti dello Stato che si sono aggiudicati un «posto sicuro» per la vita vincendo un pubblico concorso - se non, addirittura, con un sindacato (Magistratura democratica) che, peraltro, assomiglia più a un partito politico che a un organo dell'amministrazione della giustizia.

Lo Spirito delle leggi non è un manuale per studenti universitari di Giurisprudenza adottabile dal Parlamento e, se applicato, utile a realizzare meccanicamente la distinzione e la separazione fra poteri e ordine. È un trattato politico o, se vogliamo, la più sistematica descrizione del dispotismo nel quale può degenerare un sistema politico. Lo Spirito delle leggi è il complesso di fattori - filosofici, sociologici, morali, storici, persino climatici, eccetera - che, secondo Montesquieu, si concretano nella produzione legislativa. Per cercare di capire l'attuale stato dei rapporti fra i poteri dello Stato e l'ordine giudiziario che chiamiamo impropriamente magistratura - confondendo la funzione giurisdizionale con lo strumento tecnico - bisognerebbe, dunque, leggere lo Spirito delle leggi come trattato politico. Che piaccia o no, non siamo una nomocrazia - un Ordinamento giuridico che non si prefigge particolari fini - ma una telocrazia, un Ordinamento giuridico preposto al perseguimento di specifici fini e programmi. E dalla natura delle leggi o, meglio, dell'Ordinamento giuridico che le presiede che promana il conflitto.

Per la cultura liberale, le leggi non dovrebbero proporsi fini e programmi etico-politici, ma essere unicamente monocratiche, regolare i rapporti privati fra cittadini e fra questi e lo Stato, punendo chi (eventualmente) le violasse; l'Ordinamento giuridico generale non dovrebbe, a sua volta, essere programmatimi, indicare e perseguire un qualche programma, ma procedurale, cioè non dire «chi» governa, ma «come» si governa. La nostra Costituzione, all'articolo 3, fissa, però, fra gli obiettivi che la Repubblica dovrebbe realizzare - «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» - fini perseguiti, coercitivamente, dagli Stati di socialismo reale, ma che non sono realizzabili in una «società aperta», e in una economia libera, per evidente impraticabilità materiale e formale.

Così, la parte della magistratura di ispirazione neogiacobina, collettivista e dirigista, si sente in dovere non solo di esercitare una funzione di supplenza del legislativo e dell'esecutivo in materia di fini e di mezzi, ma addirittura - come è già accaduto - di intervenire, con le proprie sentenze, sugli equilibri interni alla classe politica in favore di quelle forze che interpretano più rigorosamente il detta to costituzionale. Che piaccia o no, in punta di Costituzione, hanno ragione i magistrati politicamente interventisti e hanno torto coloro i quali ne denunciano le intromissioni politiche. Il difetto sta nel manico, ma nessuno pare avere il coraggio di dire che - per eliminarlo - bisogna mettere mano alla Costituzione.

Quella sentenza e i doveri d'uno Stato

Dalle motivazioni della sentenza della Cassazione - che conferma la condanna di Silvio Berlusconi a quattro anni e all'interdizione dai pubblici uffici - si apprende l'esistenza di una nuova fattispecie giuridica di delinquente della quale, finora, la giurisprudenza non aveva notizia: «l'ideatore di reato». Berlusconi avrebbe inventato, dice la sentenza, un meccanismo tecnico-amministrativo tale da consentire a Mediaset di frodare il fisco. Che poi i suoi sodali, pur avendo commesso il reato da titolari di cariche societarie, non ne siano stati incriminati, mentre lo sia stato Berlusconi, pur non avendone più alcuna, sarebbe così spiegabile alla luce della sentenza. Essi non avrebbero commesso reato, in quanto si sarebbero (solo) avvalsi del meccanismo fraudolento ideato da Berlusconi; che, come suo scopritore - diciamo pure come «ideatore di reato» -, ne sarebbe invece permanentemente responsabile. Come dire: d'ora in poi, chiunque scriva un libro giallo nel quale descriva in dettaglio il modo migliore di rapinare la Banca d'Italia, sappia che è passibile di condanna anche se, e quando, altri lo facciano davvero. Ma in uno Stato di diritto la responsabilità penale non è sempre personale? E per il capo d'una grande azienda, escogitare un modo d'evadere il fisco non è, nella peggiore delle ipotesi, la manifestazione d'una brutta intenzione o, nella migliore, di cattiva coscienza? Le intenzioni, ancorché brutte, sono ancora un peccato inconfessabile, ovvero già un reato perseguibile? Il fatto stesso che una sentenza come questa sia passata nel silenzio generale a me pare dia la misura dell'abisso giuridico e morale in cui è caduto il Paese; un segno del livello d'arbitrarietà del quale fa sfoggio certa magistratura e della passiva accettazione, da parte dell'opinione pubblica, di qualsivoglia decisione essa prenda sull'onda di una sempre ben orchestrata campagna mediatica. In punta di diritto e di logica, se Berlusconi da presidente di Mediaset aveva frodato il fisco andava, evidentemente, condannato; se ci aveva pensato, e ne aveva ideato il modo senza metterlo personalmente in pratica, andava assolto. Mi chiedo allora perché sia stato condannato.

Non voglio difenderlo e neppure sostenere che, come uomo d'affari, non abbia mai commesso qualche peccato, piccolo o grande che fosse. Mi limito a formulare un'ipotesi che può riguardare ciascuno di noi. La sentenza della Cassazione pare dimostrare che, se certa magistratura vuole accusare qualcuno di aver commesso un reato e non ne ha le prove, ne «crea» uno che da quel momento diventa un nuovo reato. Quella d'«ideatore di reato» era la più grottesca motivazione che si potesse elaborare per una sentenza, quali che fossero le reali responsabilità del Cavaliere. Così, la magistratura ha dato adito al sospetto che le vere ragioni della condanna siano state in realtà politiche: un modo di liberarsi del capo di un movimento che si oppone all'egemonia della sinistra. Non si tratta qui d'essere pro Berlusconi, affermandolo, ma di riflettere sulla salute dello Stato di diritto e sulla sicurezza di ciascun cittadino in una democrazia liberale. Sbaglia, perciò, lo stesso Berlusconi quando dice che sarebbe «una ferita alla democrazia» la sua espulsione dal Senato. Quale democrazia, caro presidente? Quella che per liberarsi di lei, attraverso la magistratura, l'accusa d'essere «ideatore di reato»? Andiamo... La democrazia da noi è morta da un pezzo e la responsabilità è anche sua, che ha trasformato il problema della giustizia, che riguarda tutti, in un suo caso personale. Capisco - dopo anni d'inchieste e d'accuse più o meno verosimili - le sue ragioni. Le avrebbe chiunque. Ma lei è un uomo politico, referente di milioni d'italiani che non voterebbero mai la sinistra e ha il dovere di pensare politicamente, cioè in termini generali. Denunci l'accusa d'«ideatore di reato», con la quale l'hanno condannata, e faccia sollevare in Parlamento il problema della certezza del diritto nei confronti di tutti, soprattutto di chi non dispone delle sue risorse finanziarie per difendersi. La smetta di comportarsi come un accusato permanente e accusi, a sua volta, un modo d'amministrare la giustizia che è non solo ingiusto e pericoloso, ma pregiudizievole per la sopravvivenza della stessa democrazia.

 

 

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