Marco Fontana
Marco Fontana
La voce delle Circoscrizioni
Circoscrizioni di Torino
19 agosto 2011

Articolo del giorno: Il vero disavanzo delle democrazie

Con il terremoto della finanza mondiale e con i disordini in Inghilterra l’estate del 2011 sta facendo suonare un campanello d’allarme generale per tutti i regimi democratici. In particolare per quell’aspetto cruciale che è il rapporto dei governi con le risorse disponibili. Tutto ha inizio con il suffragio universale, cuore di quei regimi. Nei quali, come si sa, ogni tot anni chi è al potere deve per l’appunto cercare di avere un voto in più dei rivali, dimostrare che i propri risultati (ovviamente limitati) sono superiori alle promesse (potenzialmente illimitate) degli avversari.

La questione decisiva è dunque ogni volta la seguente: come ottenere quel voto in più? Nel corso del tempo le risposte si sono andate riducendo in pratica ad una sola: spendendo, impiegando risorse per soddisfare le esigenze o comunque le richieste dei più vari gruppi sociali in modo da ottenerne così il favore elettorale. Ma spendere significa trovare i soldi per farlo, cioè tassare. Spendere con una mano e tassare con l’altra è divenuta così la regola generale dei regimi democratici. Una regola sempre più vincolante a partire dagli Anni 70 del secolo scorso: allorché alcuni importanti motivi di consenso di tipo politico-ideologico fino ad allora operanti nei regimi democratici (la difesa di certi interessi nazionali ancora largamente sentiti, la necessità di opporsi al comunismo o il ricordo ancora recente del fascismo) hanno perduto di peso o sono svaniti.

Da allora le motivazioni di tipo materiale hanno sempre più rapidamente sostituito quelle immateriali. Tanto più che, sempre a partire dagli stessi Anni 70, la crescita dei redditi, la rivoluzione dei consumi e la comparsa di sempre nuovi beni d’uso quotidiano, hanno cominciato ad occupare sempre di più l’orizzonte delle nostre società, sempre più condizionando le attese degli individui e la formazione della loro stessa soggettività. In questo modo dal dibattito ufficiale delle democrazie è stato rapidamente espulso ogni elemento ideale. Nelle società democratiche, nelle nostre società, non hanno trovato più spazio un qualunque discorso pubblico riguardante il mondo dei valori personali e collettivi, la qualità della vita individuale e della convivenza, le prospettive del futuro. Conseguenza diretta ed esemplare (dappertutto, ma specie in Italia) di questo assottigliamento spirituale—è consentito chiamarlo così? —della cultura democratica, è stata la progressiva perdita di rilevanza e di qualità che ha colpito tanto il sistema dell’istruzione pubblica che l’informazione. Ed è accaduto così che al di là dell’elemento procedurale, l’unica sostanza delle democrazie sia divenuta la pura e semplice tutela, sempre più ampia, di sempre nuovi diritti per i singoli e per i gruppi. La spesa pubblica ha acquistato, in questo modo, un ruolo assolutamente decisivo nella costruzione del consenso democratico. Dovendo tra l’altro fare i conti con un’ulteriore disposizione psicologica tipica delle democrazie: che ciò che è concesso una volta diviene di fatto irrevocabile. Opportunità, elargizioni, benefici e diritti vari, una volta riconosciuti o dispensati possono solo aumentare, mai diminuire.

Ma il meccanismo del consenso attraverso la spesa pubblica, attraverso sempre più spesa pubblica, diventa alla lunga insostenibile, specie se per qualunque ragione il ciclo economico rallenta o si ferma per qualche tempo e il sistema produttivo non genera ricchezza sufficiente da consentire un prelievo fiscale crescente, o tale comunque da soddisfare le richieste che fanno la fila davanti allo sportello della politica (e che tra l’altro aumentano proprio quando le condizioni dell’economia peggiorano).

È quello che è capitato alle democrazie occidentali (per prima all’Italia) più o meno negli ultimi trent’anni, allorché, inoltre, il grande consolidamento postbellico dei regimi democratici ha voluto dire un’immissione stabile nella cittadinanza dei più larghi strati sociali, di milioni di persone. L’economia reale, insomma, non ha tenuto dietro al costo della democrazia. È a questo punto che le classi politiche sono state costrette a cercare le risorse necessarie ad ottenere il consenso ricorrendo sempre di più all’indebitamento.

Ed è a questo punto, di conseguenza, che «i mercati», cioè la finanza, hanno cominciato a diventare gli effettivi padroni degli Stati e dei governi; in definitiva della società nel suo complesso. Ma il problema com’è chiaro non è nella finanza o nella speculazione: è nei deficit di bilancio di democrazie che non sanno essere che democrazie della spesa. Come possono fare a non esserlo? A non esserlo, almeno, oltre una certa misura, a non essere solamente tali?

C’è un’unica strada mi sembra: oggi difficile perfino a dirsi, ma probabilmente la sola possibile. Trovare alla democrazia nuovi contenuti. Contro l’unidimensionalità economicistica riscoprire la politica; allargarne lo spazio di nuovo, come fu un tempo, ai valori essenziali che ci preme salvaguardare, ai grandi problemi del modello di società che vogliamo. Contro il minimalismo pseudorealista riscoprire la politica e la capacità che essa deve avere di animare un dibattito pubblico con verità, senza chiacchiere utopiche, ma anche con capacità di visione e di mobilitazione ideale. Nei tempi duri, forse durissimi, che ci attendono, la sola speranza della democrazia è nella politica, in una politica siffatta. Solo con questa politica riusciremo, se ne saremo capaci, a fare sì che le nostre società non diventino una docile e invivibile appendice della Borsa.

di Ernesto Galli della Loggia da Il Corriere della Sera

 

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