Marco Fontana
Marco Fontana
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Circoscrizioni di Torino
27 febbraio 2015

Italia: non vi saranno più imprenditori come Ferrero - Intervista a Giuseppe Berta

Il dibattito politico si concentra spesso sulla questione del Sud. La proposta di Renzi di reintrodurre il Ministero del Mezzogiorno è ancora discussa, mentre il premier è in tour fra le aziende delle regioni meridionali.

Tuttavia c'è chi anche chi ritiene esista una questione del Nord, senza dare per scontato di affrontarla singolarmente, non vedendo più una netta separazione tra le due parti del Paese. Nel libro "La via del Nord", (edizioni Mulino) ci illustra questa situazione Giuseppe Berta, noto economista e docente di Storia contemporanea all'Università Bocconi di Milano. Sputnik ha chiesto un parere qualificato sull'attuale economia italiana.

- Come sta il Nord del Paese?

- Il percorso che ha compiuto il Settentrione dal dopoguerra ad oggi è simile a una parabola. È una situazione ricorrente nella storia di qualsiasi economia, ma ha dei risvolti gravi in uno Stato nel quale si è vissuto per anni pensando che il benessere del Nord fosse un dato acquisito. Semplificando, si potrebbe dire che le regioni settentrionali hanno vissuto e vinto la crisi post conflitto bellico arrivando a consacrarsi, in particolare negli anni del boom, come polo di attrazione e di sviluppo dell'intero Paese. Oggi, invece, subiscono la congiuntura sfavorevole dando segnali di reazione scarsi e lenti. Quindi possiamo dire che il Nord sta male e che se vuole rialzarsi è obbligato a sconfiggere il più solido degli stereotipi: la convinzione di essere ancora un'area forte tra le aree forti d'Europa.

- Esiste ancora il Nord d'Italia?

- No, non esiste più, dissolto come le virtuose pratiche civili di cui si credeva depositario assoluto. A me sembra che il Settentrione abbia perso le caratteristiche che l'avevano fatto diventare la componente trainante d'Italia. Oggi quest'area geografica ed economica è assimilabile al resto del nostro territorio, e nulla di più. Si tratta di un fenomeno che oserei definire di "omologazione". Si guardi ad esempio alla criminalità organizzata, diffusa nel Nord in particolare durante la grande crisi che stiamo vivendo: ci troviamo di fronte a una società incerta, con scarsa sicurezza sul proprio futuro, una comunità alla disperata ricerca di protezione.

 - Quindi la diffusione delle criminalità organizzata ha influito sull'economia?

- Ha colpito molte aziende: vi è una zona grigia di ripiegamento all'ombra della malavita, quale ombrello protettivo dalla crisi economica. Inchieste come "Minotauro" raccontano questo cambio di rotta. Mi pare perciò un Nord molto distante da quello della mia memoria e di sicuro altrettanto lontano da quella delle migliaia di abitanti del Sud che emigrarono al Nord per trovare fortuna.

 - Renzi parla di ricostituire un ministero del Mezzogiorno. Da quello che Lei dice, ne servirebbe uno per il Settentrione?

- Oggi la crisi è in tutta l'Italia, non in una parte del Paese. Credo soprattutto che si farebbe bene a preoccuparsi del brutto momento che vive l'Europa, dentro alla cui crisi c'è anche quella dell'Italia, ma non la si può decontestualizzare da quella globale. Piuttosto si può dire che nel nostro Paese si siano ribaltate con maggiore forza tutte le contraddizioni europee, complice anche una classe dirigente che non ha saputo imprimere una direzione vera alla sua politica.

 - Che cosa è cambiato per il Nord rispetto al passato?

- Semplicemente, la spinta economica propulsiva ha perduto vigore. Il tessuto produttivo italiano non ha mai cambiato pelle, preferendo rimanere all'interno dei suoi confini. Così facendo si è persa anche buona parte della grande industria. Alcuni marchi storici sono scomparsi, si pensi a Olivetti, Montedison, Fiat, la quale ha cambiato natura e dimensionamento geografico. Insomma, si sono persi i pilastri del nostro sviluppo e a queste assenze non si è sostituito nessuno.

 — Tutta colpa della nostra classe politica?

- Assolutamente no. La differenza lo fa una società nel suo complesso. Lo sviluppo e la crescita chiamano in causa non solo i capi d'azienda, ma anche i lavoratori. La storia italiana è lì a ricordarcelo. In questo momento c'è un disorientamento generale, che blocca il processo di ripresa.

 — Parlando di marchi che se ne sono andati, non si può non ricordare la recente scomparsa del patron della Ferrero.

- Certamente: Ferrero è stato il tipico imprenditore del Nord, partito da una piccola bottega che trattava un prodotto semplice come la nocciola del Piemonte, fino ad allora scarsamente considerata, e riuscito a portarla al successo con intuito e tenacia, prima nel mercato interno, poi in quello europeo e infine in quello mondiale. Un successo non egoista, ma condiviso con il territorio da cui si estende: confrontiamo l'albese di Fenoglio con quello attuale. Purtroppo, per un Michele Ferrero che se ne va, non vedo dei sostituti.

 - Si può insegnare a fare impresa?

-  No. Si possono dare dei fondamentali, ma ci si ferma lì. Se è vero però che viviamo nell'epoca della conoscenza, allora in Italia registriamo un grosso deficit, più grosso di quello del debito pubblico: sto parlando della bassa natalità. Oggi l'età media è 44 anni; 46,5 per il Nord. Il problema sta qui: il ricambio di idee parte per forza dal numero di risorse umane che può sviluppare capitale umano e conoscenze. Insomma, per sostituire un Ferrero ne deve nascere uno nuovo, ma per le percentuali di oggi è difficile che accada.


di Marco Fontana - Pubblicato da

Agenzia Sputnik/Voce della Russia

 

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